E’ un nuovo approccio che potrebbe dare risultati migliori in alcune categorie di pazienti infertili: viene definito “freeze-all”, e consiste nel fatto che tutti gli embrioni generati in un ciclo di Pma vengono congelati e trasferiti nell’utero nel ciclo successivo. A differenza dei protocolli convenzionali, dunque, dove l’embrione fresco viene trasferito in utero nel corso del ciclo stesso, la nuova strategia vede nel congelamento un fattore di successo soprattutto nelle pazienti over 35. A dimostrarlo è uno studio presentato da Karen Hunter Cohn della società statunitense Celmatix, durante il Meeting Annuale della Eshre a Helsinki.
Inizialmente la strategia “freeze all” era stata sviluppata per ridurre al minimo il rischio di sindrome da iperstimolazione ovarica (Ohss), ma sembra essere in grado anche di contrastare gli effetti dei farmaci utilizzati per la stimolazione, che in alcune pazienti possono avere un impatto negativo sulla ricettività uterina. Quindi, secondo il nuovo approccio, rimanere in attesa fino al ciclo successivo per il trasferimento dell’embrione potrebbe migliorare gli esiti.
Lo studio ha esaminato più di 16.000 cicli di fecondazione in vitro eseguiti in 12 centri degli Stati Uniti. Dopo l’analisi dell’età delle pazienti e altre variabili, tra cui lo screening genetico preimpianto, che rappresentano fattori importanti per il successo del trattamento, è emerso che la tecnica del freeze-all è legata a un aumento delle gravidanze nelle pazienti con oltre 35 anni (46% in “freeze-all” e 33% nei cicli a fresco).
“Ci sono diverse ragioni cliniche per attuare questo approccio”, ha spiegato Eric Widra del Shady Grove Fertility di Washington. “Per esempio per pazienti ad alto rischio di Ohss, pazienti che fanno la diagnosi genetica preimpianto, e, soprattutto, per quelle donne che hanno un aumento precoce del progesterone prima del prelievo degli ovociti. Diversi studi hanno dimostrato che questo aumento ormonale è associato a un più basso tasso di gravidanza dopo il trasferimento dell’embrione fresco” .
“I risultati di questo studio sono interessanti – ha concluso Widra – ma servono altri studi randomizzati per capire se questa possa essere una strategia efficace per qualsiasi gruppo di pazienti”.